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La magia del vulcano |
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Altre leggende, altre favole si possono trovare nell’antica e recente letteratura napoletana. Curiosa è la leggenda narrata a Cercola che riguarda il pittore Luca Giordano.
Luca fa priesto, come lo chiamavano per la sua rapidità nel dipingere, aveva rappresentato sulla tela l’inferno con tutti i suoi diavoli. Doveva terminare l’opera apponendovi l’ultima pennellata quando, trovatosi sul Vesuvio in prossimità del cratere, udì all’improvviso una voce cavernosa e sinistra provenire dall’interno del cono. Nello stesso tempo, preceduto da un forte odore di zolfo, gli si presentò un diavolo che si congratulò con lui per averlo dipinto a meraviglia e che, per mostrargli riconoscenza, si pose a sua disposizione. Luca Giordano, devoto al Signore, rifiutò e, ritornato a Cercola, distrusse la tela.
Altra storia ancora più fantastica è quella narrata nella Ciucceide di Nicolò Lombardo:
"Sacciate addonca, ch’into a sta montagna,
addo nuie trasarrimmo, nce sta n’uorco.
Chisto no’ scenne maie pe sta campagna,
ma sta sempe llà’nchiuso, comm’a ppuorco.
E che magna llà dinto? Che nce magna?
Magna prete, schefenzie. Comm’è sporco!
Magma oro, magna chiummo, magn’argiento.
Se chiama lo Vesuvio e ha na sore,
ch’è ppur’Orca e sse chiamma Zolfatara,
che sta poco descuosto, e n’ascjieno fore
tutte duje ‘a no ventre; è cosa rara,
comme sò tutte de no stisso ammore.
Si chella stace allegra, se rischiara
la faccia de chist’auto; ma si chisso
se ‘nzorfa, chella ‘ncigna a ffà l’aggrisso.
Si chisto mo peppeja, e chella fumma;
si chella ha famme, e cchisto have l’abbramma.
Veve shisto? E chell’auta fa la ‘mbumma;
chella cammina, e chisto àuza la gamma.
chella sta co na faccia de maumma?
E chisto abbotta e te fa chiammà mamma.
‘Nzomma, si chella ride, e cchisto ride;
si chisto chiagne, chiagnere la vide.
Na cosa schitto ha visto che n’ha chella:
e pprevvene ca chisto è ccorporente,
e chella accanto a chisto è n’alecella.
Chisto fa cierte ccose cchiù fetiente,
pecchè ssòle patè de cacarella,
e cquarche bota vòmmeca pe’ niente;
e cquanno lo bbò fa’, pe nzi’ a la vocca
saglie pe sta montagna e te l’abbocca.
In un testo più recente, "La bambina dietro la porta" di Maria Orsini Natale, una vecchia signora, proveniente da Somma Vesuviana, dal suo biroccio scaricava, insieme ai ferri del mestiere, anche una colorata e gonfia mappata di favole e leggende che raccontava mentre lavorava. Allargava la lana, riempiva i teli dei materassi e incantava con le sue storie fantastiche i bambini raggomitolati sugli sgabelli di paglia. Le storie del Vesuvio erano la sua passione e cominciava sempre allo stesso modo:
'Nce steva ‘na vota,
ciento e cient’anne fa,
na muntagne affatata
chiena ‘e fuoco de stelle…
‘Nce steva ‘na vota,
e mo’ ‘nce sta ancora…
Senza saperlo, Teresenella dava una prima, elementare conoscenza di quella montagna piena di "fuoco delle stelle" e avvicinava i bambini ai misteri dell’universo.
"Signore degli anelli e grande Mago potente": questo era il Vesuvio, ma era anche un povero gigante trafitto. Per colpa di alcune sue malefatte nelle lontane regioni "d’ ‘o turco gnafione, per cierti ‘mbruoglie ‘mbrugliate", tornando dai suoi giri nei cammini d’Oriente, come punizione a certi imbrogli, si trovò imprigionato in un grande macigno, la gamba incastrata e chiusa fino al ginocchio nel masso. Era padrone di ogni stregoneria, gli appartenevano incantesimi di acqua, vento e fuoco, ma nessun potere aveva sulla Terra, perché la Terra era sua madre, lei lo aveva generato.
Don Giuseppe Imbò, altro personaggio che compare nel libro dell’Orsini parlava del Vesuvio in siffatti termini: ‘O Vesuvio è comm’a ‘na figliola zitella: ciento uocchie, eppure te la fa. Imprevedibile questa montagna; eppure viveva e vive tra la sua gente. Cento paesi e cento borgate aveva chiamato intorno a sé come il pifferaio magico, e l’incantesimo dura ancora oggi. Don Giovanni Imbò quale profondo conoscitore del Vesuvio, ne controllava il fondo, la densità delle fumarole e il loro calore. Questa sua sapienza nel capire i sintomi premonitori fu la salvezza per l’eruzione del 1944. Gli americani avevano occupato l’Osservatorio, quando il 16 marzo cominciò l’eruzione.
Tutto lo scenario mutò: non più azzurri mattini, né dorati crepuscoli, ma un alto fuoco vestiva di morte i confini e li circondava di fumo. Gli alleati lasciarono l’osservatorio e scesero a valle; su rimase solo Imbò per 10 giorni, la durata dell’eruzione. A chi gli chiedeva come avesse fatto a resistere, rispondeva: "San Giuseppe, San Gennaro e San Teodoro", intendendo Teodoro Roosvelt, perché gli americani lo aiutarono in quella sua disperata volontà di salvare quanta più gente possibile. Impavidi e per niente impauriti, continuavano a spalare la cenere dicendo: "Vesubbio molto cattivo"
A termine di questo lavoro, tralasciando numerosissime testimonianze e documenti riguardanti il nostro amato, ma ancor più temuto Vesuvio, riportiamo alcune pagine tratte dalle "Leggende napoletane" di Matilde Serao. In esse la famosa scrittrice riporta la profetica leggenda, ripetuta di bocca in bocca, che circola nelle vie, che entra nelle botteghe, secondo la quale verrà il giorno in cui la montagna ai cui piedi si stendono i bei villaggi bagnati dal mare, sui cui fianchi verdi cresce la vigna dal vino generoso, farà morire Napoli.
"Arde il fuoco liquido, bolle e schiuma nei fianchi della montagna e si prepara e si accumula da secoli, per il giorno funesto. Nessuno saprà l’ora, né il giorno.
Forse la gente tumultuosa andrà ai consueti uffici, correrà dove il piacere la chiama, dove la chiama il dolore, amerà, odierà, piangerà, vivrà, come se nulla fosse. Nel cielo sereno brilleranno le stelle; nell’aria calma s’eleverà la sottile penna di fumo. Poi sul cratere comparirà un punto rosso, come un lumicino acceso, lassù, come un carboncino; i napoletani si stringeranno nelle spalle e mormoreranno: "Solite storie!". L’eruzione crescerà e gli uomini di scienza ne constateranno i fenomeni e ne annunzieranno la fine; ma l’eruzione crescerà sempre, continuamente. Un rombo sotterraneo comincerà a far tremare i vetri delle case; tre strisce vivide di lava scorreranno lungo i fianchi della montagna; il cielo cupo si tingerà di rosso; giungeranno i forestieri a contemplare il mirabile spettacolo, i napoletani si affolleranno sul Molo, a S. Lucia, a Mergellina, sui terrazzi, sulle colline, presi dall’ammirazione.
Ma, dai villaggi che sono sotto il monte, la gente impaurita comincerà a fuggire e la lava avanzerà sempre. Nuove bocche si apriranno. Ma i napoletani non hanno paura: il Vesuvio è loro vecchio amico, vuole scherzare, è un brontolone, ma presto tacerà. Nella Cattedrale le donne pregheranno San Gennaro con le dita sollevate, in atto d’imperio che comanda alla lava di non avanzare. Una mattina, però, il sole non viene fuori, una fitta nube grigia nasconde il cielo, piove cenere; i napoletani sorridono ancora e continuano i loro affari. Ma il giorno seguente il rombo diventa tumultuoso, le scosse di terremoto si succedono l’una all’altra, orribili convulsioni squassano il monte sui cui fianchi s’aprono bocche di fuoco, le lave si uniscono. Si fondono, sono una lava sola, è una montagna che cammina verso la città, coi ruscelli di fuoco; soffocanti fetori di zolfo ammorbano l’aria, piove cenere calda e pesante, piove acqua bollente, piovono lapilli infuocati. Piove la morte." Certamente il probabile scenario di morte e di distruzione che si presenterà a noi in un futuro che speriamo lontanissimo non sarà simile a quello descritto dalla Serao, ma ben più terribile per cui, quale augurio, anzi come sommesso invito alla montagna, riportiamo un canto che conclude il testo della Orsini dianzi citato, sperando che il gigante continui il suo sonno e non ci riservi sgradite sorprese:
"‘O chiù bello d’ ‘a vita è ‘o durmì…
Nun te scetà….
Con Gesù e cu’ Maria
dorme, dorme stu ninno mio…
Dormi, dormi, noi ti culliamo".
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